gennaio 1981
anno II, n°2
252 pagine,
€ 15,49
Estratto
Samuel Alexander riteneva che la verità, essendo un'idea limite, non fosse mai colta pienamente. La verità sarebbe il limite di una sequenza di verità parziali coerenti, di proposizioni intorno a fatti che assommano aspetti selettivi delle cose, e la coerenza proverrebbe dai fatti e non dalla coesione logica interna degli enunciati intorno ai fatti. Data la limitatezza del sapere umano, la verità può essere solo un ideale e mai un'effettiva coalescenza di verità parziali. L'uomo non ha né il tempo né lo spettro percettivo necessari per raggiungere ogni regione del mondo in tutti i suoi possibili aspetti. Secondo tale concezione la verità ha un carattere programmatico: possiamo avvicinarci sempre più a un'idea limite senza mai raggiungerla. Alexander è più esplicito e in modo indipendente si spinge oltre Husserl, che Sosteneva che "non ci sono verità assolute", che "la verità è un' idea situata all'infinito" e che" ogni verità reale rimane essenzialmente e senza eccezioni nella relatività, avendo l'idea di verità solo il carattere normativo di un'idea regolatrice". Comunque secondo i due filosofi ci sono soltanto gradi di verità e non possiamo aspettarci di conoscerla per intero. Questa è chiaramente un perfezionamento di tutte le troppo semplicistiche adaequatio rei et intellectus ma supera solo a metà la loro irrimediabile astrattezza. Per Alexander le verità divengono un irraggiungibile noumeno, un'idea kantiana al di là dell'umana comprensione.
Quarta di copertina
La verità risente della struttura temporale del linguaggio. Nonostante il discorso filosofico e talora quello scientifico l'abbiano presentata come una qualità extra temporale dell'enunciato. Il tempo cifra. Lungo l'innumerazione e l'errore. E tono di un incontro, effetto della cifra la verità non convince.
Il mito del parricidio sfocia in questo terzo tempo. Con una clinica che non invoca l'aiuto della psicologia storica di Vernant. È proprio il caso di dire che la negazione nonché l'ignoranti a iuris non excusat. All'alba dell'era moderna l'uguale è stato scritto con il segno delle parallele. Notazione che può oggi risultare umoristica. E ribadire come il numero non sia legale. Oggi che il segno uguale rappresenta il numero come segno della buona salute in modo che tutti siano ugualmente grandi. E la verità non cifra come invece presume il concetto di mistero. Ma effetto. Che per Peano è della cifra dato che questa non è vincolata a un'ontologia. Verità non necessaria. E che risente di un'aberrazione: quella del punto vuoto. Della voce. Solamente con la cifra la voce giunge a tono. A una verità che non ritorna. E il sapere è matematico per Peano perché non codificabile. Se Galilei inventa un metodo in una scienza, Peano trova la cifra nella logica matematica. Che egli fonda. E Mario Calderoni, dopo avere notato che il tempo della verità non può essere misurato e che il lavoro scientifico non obbedisce a un principio epistemologico, prendendo spunto dall'aritmetica auspica una casistica scientifica che evochi il percorso del diritto. Cesare Burali-Forti chiama il suo noto paradosso che poi ha fortuna con Russell enunciazione di verità. E abbondano nei suoi scritti notazioni finissime. Dopo avere osservato che il sacrificio della specificità e della precisione alla semplicità trascina la ricerca verso il dogmatismo e che molti studiosi italiani immaginandosi in questo modo originali diffondono qualsiasi banalità purché di marca estera, scrive che contrariamente alla metafisica l'esistenza nella logica matematica non comprende nessuna significazione e che l'uguaglianza è tanto differente in ciascun caso da richiedere una notazione ciascuna volta differente. Effettuale: la verità varia. Come servirla?
(Armando Verdiglione)