Estratto del libro
Federico Fellini, François Truffaut, ma anche i minori del cinema, si sono sempre ritenuti alla stregua di Dio. Un regista, qualsiasi regista cinematografico, è Dio. Perché fa la storia, la crea, la cambia, la manipola, la inventa. È un creatore non solo di storie ma della Storia.
Fellini e Truffaut, per citare i più grandi (e i più amati da chi scrive) dicevano spesso di sentirsi divini, immortali, in virtù della possibilità di far nascere o meno un personaggio, di farlo vivere o di farlo morire. O di farlo soffrire, amare, scomparire. Di raccontare la vita non come è, ma come la
vedono e vivono loro, di narrare la propria verità, non quella degli altri, di dare vita e corpo (virtuali, sullo schermo) a persone e avvenimenti i cui destini sono soltanto e unicamente nelle loro mani. "Un film è come un treno nella notte, non lo può fermare nessuno", raccontava Truffaut.
Majakovskij, nell' euforia rivoluzionaria, cantava: "E il treno correva nell' ottobre ormai socialista". Per Truffaut, come per Majakovskij, si trattava di un'illusione, artistica per il primo, politica per il secondo. Il cinema è un sogno a occhi aperti, diceva Hitchcock.
Fare il cinema è non soltanto creare ma sognare e lo schermo animato altro non è che la proiezione del sogno, dell'illusione. Il cinema è la fabbrica dei sogni e delle illusioni. Perciò piace a chi lo fa e a chi lo vede. Il regista è felice perché realizza le sue ambizioni artistiche sedendosi al fianco del Creatore, lo spettatore non lo è di meno perché s'identifica nell'illusione dell'immagine filmica, la fa propria, vi s'immerge e vi scorge le proiezioni dei suoi desideri. L'identificazione con l'immagine sullo schermo è un processo psicologico ed emotivo su cui non c'è più nessun bisogno di soffermarsi.
Ciò che invece occorre analizzare è un complesso di elementi dalla cui comprensione dipendono quei giudizi che nulla hanno a che vedere col valore artistico di un'opera cinematografica, quantunque da questo vengano orientati verso una direzione piuttosto che verso un' altra. Benché nel nostro caso siano, i giudizi, di puro contenuto, fortemente condizionati sia dalla bellezza del film sia dalla necessità intrinseca dello spettatore di fare proprio il contenuto del film, di condividerlo, di sentirsene partecipe, organico, militante.
Quarta di copertina
Chi fabbrica i sogni, chi costruisce le immagini realizzando un film come il Potëmkin o Roma città aperta sa perfettamente ciò che fa. Sa di descrivere un soggetto che è già una 'invenzione' – qualunque sia il rapporto di questo con la realtà effettuale –, sa, inoltre, di elaborare una sceneggiatura, spesso con altri, e tutti insieme sanno perfettamente che ciò che stanno narrando dovrà corrispondere alle immagini, alle scene, alle sequenze che successivamente il regista realizzerà. Quest’ultimo, et pour cause, conosce meglio degli altri il ‘momento della verità’, l’attimo in cui alla parola scritta e ai fantasmi dell’immaginazione si sostituiscono le immagini dei personaggi, e prende così vita e corpo ciò che era relegato nel limbo della virtualità. E non ha nessun valore la pur inevitabile osservazione che anche il cinema è virtuale, è pura immagine, è fiction. Lo è di certo, ma in tutt' altra accezione e con opposti risultati, dato che l'opera
cinematografica, il film artisticamente riuscito, il capolavoro non sono da alcunché necessitati per giustificarsi, non hanno nessun referente, non devono dare risposte che a se stessi, cioè autonomamente, e che continueranno a vivere per omnia secula seculorum. (Paolo Pillitteri).
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