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Discorso sopra lo stato presente degli italiani
Antimo Negri
Discorso sopra lo stato presente degli italiani
Anno: 2000
Pagine: 569
Prezzo: € 30,98
Dimensioni: cm 14,0x21,5
Legatura: cartonato con sovraccoperta

Collana: l'alingua
ISBN: 9788877705617

In occasione dei dibattiti svolti durante le celebrazioni del bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi, iniziate nel 1998 e protrattesi fino alla fine del 1999, in merito all'attualità o inattualità del sommo poeta e di un suo scritto in particolare, pubblicato postumo, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani (1906), Antimo Negri si interroga sui cambiamenti occorsi tra gli italiani del risorgimento, quelli che fecero l'Italia, e gli italiani di oggi, che, forse, in un'Italia già "fatta", non sono ancora riusciti a "farsi" italiani.
Estratto del libro
Queste pagine, la cui stesura cade nei giorni del governo D'Alema, il primo governo della Repubblica con un premier proveniente dall'ex Pci, insediatosi il 21 ottobre 1998 e presentatosi come dimissionario al Senato il 19 aprile 2000, si sono poste sotto un titolo chiaramente leopardiano. Solo, il discorso di Leopardi [l'Autore si riferisce al Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, pubblicato postumo nel 1906] aveva come oggetto di considerazione, di carattere antropologico e sociologico, lo "stato" (con l'iniziale minuscola), cioè la condizione caratteriale — o, se si vuole, culturale — degli italiani intorno agli ultimi anni Trenta del secolo scorso, mancanti, nella loro molteplicità individualistica, di un “costume” nazionale. Queste pagine vertono, invece, sullo "Stato" (con l'iniziale maiuscola), come amavano e amano scrivere il termine quanti ne avevano e ne hanno il senso e anzi il sentimento più profondo e lo facevano e lo fanno consistere nella "Nazione" o nella "Patria" (sempre con l'iniziale maiuscola), cioè sull'assetto costituzionale in movimento della nostra Repubblica che continua a essere un'Italia "fatta" e anche "rifatta", senza che gli italiani siano ancora "fatti", mancando per altro la speranza che si possano "fare" [...]. Un discorso, quello che qui si è tentato di fare, costruito, da ultimo, con la presa di coscienza che non c'è e non può esserci più posto per il rimpianto di un'Italia di fatto mai unita o per la speranza che potrà esserci un'Italia di fatto unita, per il permanere di una costante distanza tra il Paese reale e il Paese legale, anche quando, nell'ultracinquantennio repubblicano, successo al regime fascista, travolto dalla tragedia del secondo conflitto mondiale, i nostri giovani si sono espressi democraticamente.
Quarta di copertina
Quando abbiamo imparato a leggere meno il Cuore e più il Pinocchio, abbiamo anche cominciato a liberarci dall'immagine, oleograficamente risorgimentista e retoricamente fascista, di un'Italia "cordialmente" ormai "una e indivisibile", e a scoprire un paese individualisticamente regionalista, "fatto" di italiani che restano nipotini dell'"uomo del Guicciardini", sempre legati al "particulare", ciascuno dei quali "fa tuono e maniera da sé" (Leopardi).
Un'altra Italia – la quarta? – nata dallo "spirito della resistenza" e dal patto dell'"unità antifascista"? Le vicende dell'Italia repubblicana, in queste pagine seguite anche indulgendo alla cronaca, accendono una riflessione sul destino del nostro Stato-nazione, ormai in Eurolandia e dentro il mercato globale. Al centro di questa riflessione la maturata sfiducia in una composizione dialetticamente equilibrata tra le ragioni del liberalismo e/o del liberismo e le ragioni del socialismo, e, di conseguenza, la constatazione, non rassegnata, del prevalere, anche nel nostro Paese, dell'"economico" sul "politico", quand'anche non sul "morale" o sull'"etico". Ma tant'è: il trionfo dell'"economia" sulla "politica" – o sulla "morale" o sull'"etica" – è ormai un fenomeno mondiale. Quando la cronaca delle vicende della nostra vita repubblicana cede il posto alla riflessione che essa stessa accende, avanza una domanda di fondo: sanno, i nostri politici di professione, che quotidianamente si accapigliano nello Stato-nazione come in un'arena periferica del mondo con l'intenzione, mai coronata dal successo, di salvaguardare la democrazia, che il loro mestiere è al tramonto?
No, questo libro non è riuscito a essere solo un pamphlet. Non poteva essere solo questo, soprattutto perché lo Stato presente degli italiani è lo stato presente di un mondo, in cui i nipotini dell'"uomo del Guicciardini", in quanto homines oeconomici, sono, molto probabilmente, quelli che in esso potranno trovarsi più in agio, perché, in un'epoca di irresistibile transnazionalismo, possono cantare, come i gloriosi anarchici di un tempo: "la nostra patria è il mondo intero". La patria, del resto, l'hanno già perduta, o non l'hanno mai avuta.
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